venerdì 15 maggio 2020
La clausura forzata ha disciolto i ritmi della vita precedente in un flusso indistinto. Questa è l’opportunità di ricostruirli su principi più umani. E più divini. La riflessione del domenicano
Una donna in preghiera a Bilbao, in Spagna

Una donna in preghiera a Bilbao, in Spagna - Reuters/Vincent West

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Nella preghiera di mezzogiorno cantiamo: «Fino a quando, Signore?» dal salmo 13. Prima del Covid–19, quando cantavo queste parole pensavo ai miei fratelli e sorelle in Iraq. Adesso queste parole le troviamo sulle nostre labbra. Fino a quando durerà la pandemia, Signore? Gli staff medici devono chiedersi quante ore dovranno lavorare in maniera sfiancante, rischiando la propria vita. Fino a quando i genitori potranno stare chiusi con i loro bambini, pazienti e amorevoli? Fino a quando i nonni non potranno godere di nuovo dei loro nipotini? Fino a quando non potrò disporre dei risultati del mio tampone sul coronavirus? Per quanto tempo potrò vivere? Anche nel mio spazioso convento a Oxford domando: «Fino a quando, Signore?» prima di vedere di nuovo le persone che amo. Skype e Zoom non sono la stessa cosa. Fino a quando, prima che possa abbracciare e stringere quanti mi sono più cari – e se ciò non avvenisse? Un’assenza breve affila il senso di attesa, ma quando è prolungata rode la nostra umanità. Nel romanzo Sete di Amélie Nothomb Gesù si compiace della sua sete: «Avendo sbuffato per la sete per un certo tempo, non bevo subito dalla coppa con fretta. Ne assaggio un pochino, la tengo in bocca prima di sputarla. Provo quanto è meravigliosa». Ma sulla croce, questa sete diventa orribile e travolge ogni sensazione.

Di solito, ci rapportiamo con questo “fino a quando” in riferimento a un calendario che struttura il nostro tempo: ritrovi di famiglia, le stagioni della nostra fede, le scadenze di scuola e università, eventi sportivi. Ma cosa struttura il nostro tempo adesso? Esso è senza forma, così è difficile farlo durare. «Il tempo è scaduto» osservava Amleto sconvolto. Sembra che abbiamo convissuto con il virus da anni, e non da settimane. Un amico mi ha scritto: «Le notizie dei media mi fanno sentire peggiore ma senza di loro ho la sensazione che mi manchi qualcosa. La quarantena mi rende nervoso rispetto al mondo fuori ma anche claustrofobico». Ho in stanza una pila di libri che volevo leggere da tempo. Adesso ho il tempo, ma non riesco mettermi seduto. L’unica tentazione è scrivere e rispondere alle email e rimanere incollato alle news.

La risposta a questo grido, “Fino a quando” non è una data su un diario ma un modo di vivere il tempo. Martin Luher King si chiese per quanto tempo il suo popolo sarebbe stato oppresso. «Per quanto sia difficile il momento, per quanto sia frustrante la nostra epoca, non durerà a lungo perché la verità repressa sotto terra risorgerà di nuovo. Fino a quando? Non a lungo perché l’arco della morale universale è ampio ma si flette verso la giustizia. Dio ha suonato forte le trombe che non batteranno mai in ritirata. Egli sta alzando in alto i cuori degli uomini prima di sedere sul suo trono a giudicare. Anima mia, sii veloce a rispondere a Dio. Siate giubilanti, piedi miei. Il nostro Dio si è messo in marcia». “Non a lungo” è durata quella situazione, e non perché vi fosse una data in cui il pregiudizio potesse finire ma perché Martin Luther King aveva imparato a vivere ogni giorno con speranza. San John Henry Newman diceva che un cristiano è qualcuno che attende Cristo e perciò è già toccato dalla sua venuta. Nella domenica in Albis del 1945, quando la Gestapo venne a prenderlo per ucciderlo, Dietrich Bonhoeffer ebbe solo il tempo di sussurrare un messaggio a un compagno di prigionia perché lo portasse al suo amico, il vescovo di Chichester George Bell: «Questa è la fine ma per me è l’inizio… La nostra vittoria è certa». Così ora il segreto è vivere i nostri giorni plasmati dalla speranza. Il teologo battista Ian Stackhouse lo ha detto così: «A me pare che la battaglia per la civiltà farà leva sulla sfida brutalmente semplice di vivere un solo giorno bene ». Questo, sostiene Stackhouse, è il dono della liturgia delle ore.

Entrambi i miei genitori scoprirono il ritmo vivificante della preghiera del breviario. Un membro del laicato domenicano, divenuto tale dopo essere stato imprigionato perché sicario di mafia, mi disse un giorno che era diventato come una suora, perché recitava il suo ufficio alla mattina, a mezzogiorno e alla sera. Le persone possono trovare altri ritmi più fecondi. Un mio amico, un medico di base che sta per andare in pensione, ha strutturato il suo tempo intorno a famiglia, corsa, giardinaggio, musica e poesia. Stiamo riscoprendo la gioia di una vita regolata. Non ho mai vissuto una vita così regolare da quando ero novizio! Da cosa si vede che la giornata è andata bene? La liturgia delle ore ci forma al punto che possiamo andare con la memoria ai pesi del passato, essere aperti al futuro con le sue promesse e così vivere il presente. Ci offre un’indicazione su come tutti noi, chiusi in casa, possiamo strutturare i nostri giorni così da vivere secondo speranza. La liturgia delle ore, in ciascuna orazione – eccetto l’ora sesta e l’ufficio delle letture – ha un cantico che ci invita a vivere questo momento della giornata. In Genesi 1 il giorno inizia dalla sera, come avviene per tutte le grandi feste. John Donne chiama l’ogiovane scurità «il fratello anziano della luce». L’alba arriva come un dono inaspettato. Per prepararci al nuovo giorno, alla sera o di notte, dobbiamo andare con il pensiero al passato, con i suoi pesi e i suoi risentimenti. Tacere con le altre persone, in una famiglia o sul piano di un condominio o anche in una comunità religiosa, sono fatiche che si accumulano e intensificano le tensioni.

In una società in quarantena, dopo un po’ di settimane trascorse sottochiave, i pensieri omicidi emergeranno. Il Magnificat ai vespri è il canto di una donna che ricorda con gratitudine le grandi cose che il Signore ha fatto per lei. In che modo avrebbe fatto fronte al futuro? Come possiamo contrassegnare ogni giorno con gratitudine per le grazie ricevute e per le persone che ci stanno guidando? Dobbiamo trovare il tempo per dire il nostro grazie, anche se non possiamo vivere il sacramento del Ringraziamento, l’Eucaristia. Molte persone stanno venendo a messa online nel nostro convento di Blackfriars, persone che non vi erano mai venute dal vivo. Alla sera a compieta siamo invitati a salutare il giorno, e anche le nostre vite. Come Simeone cantiamo: «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola» (Luca 2,29). San Paolo ci invita a fare un gesto preciso: «Non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4,16). È il tempo per purificare i nostri pensieri dalle ferite della giornata così che possiamo essere in pace gli uni con gli altri. In un modo o nell’altro abbiamo bisogno di un atto quotidiano di mutuo perdono, curandoci le vecchie ferite. Altrimenti, non saremo capaci di dormire. Il giorno è il tempo di nuovi inizi. È di giorno che il Cristo risorto appare nel giardino. Tutte le Lodi sono un invito ad essere aperti alla promessa del Signore. Il cantico del Benedictus è la lode di Zaccaria per il suo bambino, il Giovanni Battista del futuro. I bambini sono la promessa del futuro.

Durante il genocidio del Ruanda, uno dei miei confratelli venne a piangere da me perché tutti coloro che amava erano stati annientati. Il Natale seguente mi mandò una foto con due neonati paffutelli. Sul retro, la scritta: «Il Ruanda ha un futuro». L’ora sesta del breviario non presenta nessun cantico. Ci invita a far fronte alla più ardua delle sfide: vivere adesso, piuttosto che restare intrappolati nel passato e scattare verso il futuro. Gesù era un uomo che viveva ogni giorno che gli veniva incontro. Stava camminando quando vede il piccolo Zaccheo sull’albero: «Zaccheo, scendi perché oggi devo fermarmi a casa tua». Gesù agguanta il tempo presente: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa» (Luca 19, 1–10). Aspettare che la quarantena finisca del tutto può essere la cosa più dura che siamo chiamati a superare. Già ora mi appresto a rompere l’isolamento e a fare una passeggiata nei parchi di Oxford. Ma sento la voce di abba Mosè, il padre del deserto che mi ricorda: «Siediti nella tua cella e la tua cella ti insegnerà ogni cosa». Il Signore sta arrivando. Fino a quando? Non per molto.

(contributo apparso sul settimanale inglese “The Tablet”. Traduzione di Lorenzo Fazzini)

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